© Antonella Monzoni

Storia di un esperimento. Tre giorni sulle colline di Prato per riflettere sul senso del fare/studiare fotografia

15 Ottobre 2008

Storia di un esperimento. Tre giorni sulle colline di Prato per riflettere sul senso del fare/studiare fotografia

Per una volta, sulle pagine web di Cultframe pubblico un testo scritto in prima persona. Non potevo fare altrimenti. Non si tratta di una recensione, un articolo. Bensì di una riflessione soggettiva che scaturisce non da un lavoro critico ma da un passaggio esistenziale personale/collettivo.

Questa è la storia di un esperimento, di un tentativo, di un’esperienza, di un’idea nata in modo improvviso dopo molti anni di studio del tutto solitari, e spesso autoreferenziali, sulla fotografia come arte e mezzo di espressione.

 

© Samuele Bianchi

Otto persone, otto individui, otto esseri umani impegnati da anni in un proprio percorso fotografico (creativo e critico) hanno deciso di sospendere per tre giorni la pratica della fotografia, nonché quella della vita quotidiana, e di riunirsi per dialogare, vedere, studiare, discutere, approfondire, straparlare.

L’idea di base era quella di tuffarsi nel “lavorio della/sulla fotografia” (secondo i principi creativi di Carmelo Bene), cercando di dimenticare il “lavoro della fotografia”, nella speranza che il confronto paritario tra soggetti e l’abbattimento delle barriere fisiche determinate dalla lontananza fossero fattori in grado di trasportare i partecipanti all’esperimento in quell’altrove che spesso sfugge ai pensieri ordinari poiché rappresenta l’antitesti della nostra esperienza giornaliera.

Al centro del nostro “impegno” dovevano essere la fotografia e non le fotografie, la compenetrazione di sensibilità visive e non il desiderio di emergere per bravura e intelligenza, il desiderio della scoperta e non la ricerca di indicazioni sulla direzione da seguire. In sostanza, si doveva cercare di comprendere se il critico e/o il fotografo potessero realizzare un “lavorio sulla fotografia” senza cedere alla deriva narcisistica che impera in questo nostro mondo dove conta solo essere i più bravi, ed essere riconosciuti come tali dai vari potentati culturali che di volta in volta si trovano in una posizione dominante.

I nostri spunti di riflessione? Presto detto: fotografi, videoartisti e cineasti come James Nachtwey, Simcha Shirman, Adi Nes, Almagul Menlibayeva, Zbig Rybczynski, Roman Polanski. Ma anche temi come il reportage, la violenza delle/nelle immagini, il rapporto con la realtà, i luoghi e il corpo, la fotografia senza soggetto, le relazioni tra fotografia, video e cinema.

Ricercatori di significanti e indagatori del non senso come Pietro D’Agostino e Claudia Romiti, creatori di metafore spaziali e detective della coscienza, tra esperienza soggettiva e visione di ciò che ci circonda, come Orith Youdovich e Samuele Bianchi, esploratori dell’altro da sé allo scopo di perdersi più che di ritrovarsi come Antonella Monzoni e Alfredo Covino, comunicatori di un “io vedo interiore”, tra vissuto personale e sguardo esterno, come Rosa Maria Puglisi. Tutti questi elementi si sono mescolati in modo apparentemente fluido e ordinato. In verità, hanno determinato una sedimentazione che è andata ben al di là degli incontri cronologici effettuati nell’arco di un fine settimana e una frizione di visioni che è stata il cuore autentico di questo esperimento.

Per quel che mi riguarda ho dovuto lottare per tenere a freno il mio impeto didattico e forse un po’ paternalistico, per cercare di abbandonare la mia dimensione di critico per divenire semplice spugna in grado di assorbire gli impulsi dei miei interlocutori. Non so se ci sono riuscito e non so se i miei amici/fotografi/sperimentatori siano riusciti al loro volta a uscire fuori dai loro ruoli e dai loro personaggi per divenire parte integrante di un sistema nuovo, contro il regime culturale che blocca l’evoluzione creativa della fotografia in Italia.

© Pietro D’Agostino

Le sensazioni che provo dopo questo esperimento sono contrastanti. Da una parte ho la netta impressione che ciò che io, Claudia Romiti, Pietro D’Agostino, Rosa Maria Puglisi, Orith Youdovich, Alfredo Covino, Antonella Monzoni e Samuele Bianchi, abbiamo fatto rappresenta un punto di partenza imprescindibile per sviluppare un “lavorio sulla fotografia” non ingabbiato in un sistema italiano devastato da festival inutili, letture di portfolio dannose, agenzie poco lungimiranti, workshop aridi, fotoclub senza senso, accademie chiuse in se stesse, potentati/baronati culturali sterili e aggressivi. Ho sentito un’atmosfera di verità come raramente mi è capitato di percepire e anche la volontà da parte di tutti di (ri)conoscere lo sguardo degli altri, nonostante il compiacimento intellettual/onanistico sia qui e là emerso (ma onestamente non poteva essere altrimenti).

Dall’altra parte ho colto paure (anche le mie), indecisioni (anche le mie), e soprattutto distrazioni clamorose (non secondarie) e incapacità di abbandonarsi in maniera totale e catartica a quel “lavorio” necessario per produrre idee e di conseguenza, in altre future situazioni, oggetti artistici che pongano problemi e non diano risposte. L’impressione è che almeno nel microcosmo ricreato in questo esperimento, ci sia stata una chiara difficoltà a riflettere sulla fotografia senza parlare solo della propria fotografia e che il vero spirito dell’iniziativa sia stato colto solo a tratti. Probabilmente, nonostante tutti i miei sforzi per evitare di collocarmi nella posizione di demiurgo/ideologo ho finito per calarmi nello stereotipo del critico/guida e ciò ha impedito una libera circolazione delle idee e una sorta di intermittenza dell’attenzione da parte dei partecipanti.

© Orith Youdovich

Altra questione, di cui avevo timore ma non certezza, riguarda la mancanza di tensione comparativa nella mente dei creativi delle immagini tra discipline sorelle come fotografia e cinema. Probabilmente dietro questo atteggiamento si nasconde un problema culturale e l’abitudine a operare per compartimenti stagni, abitudine che proviene da un lato dalle “accademie” dall’altro dalla fotografia amatoriale. Mi batto da anni per risolvere questo problema trovando resistenze inenarrabili, sempre maggiori. Le stesse silenziose ma significative resistenze in cui mi sono imbattuto nel corso dei giorni di “lavorio” di Prato.

Infine, sento di dover ringraziare profondamente i miei compagni di viaggio perché hanno accettato la sfida, si sono messi in gioco saltando nell’abisso insieme a me, cercando di assecondare il lavorio a cui “volevo costringerli” con una dose di umiltà e di umana disponibilità che in alcuni di loro non mi aspettavo.

Il fatto che io abbia rilevato dati non esattamente positivi di questa iniziativa non deve far pensare a un insuccesso della medesima. Anzi, penso che ciò che è avvenuto all’Agriturismo San Giorgio di Prato sia stato un evento rivoluzionario e unico. Tutti abbiamo dato il nostro apporto decisivo. Per quel che mi riguarda è stata un’esperienza formativa (visto che non si finisce mai di imparare). Che vorrò ripetere.

Ritengo che questo sia solo il primo passo verso un vero e proprio “Gruppo Itinerante sul Lavorio Fotografico” che intendo portare avanti allo scopo di abbattere barriere, pregiudizi e luoghi comuni imperanti nella fotografia italiana; e spero che i miei primi compagni di viaggio (Claudia, Alfredo, Pietro, Samuele, Antonella, Orith, Rosa Maria) vogliano continuare a fare questa strada con me. Spero anche che si aggiungano altri fotografi e altri studiosi che accettino di aprirsi e confrontarsi senza pretendere di trovare soluzioni e di imporre le proprie convinzioni.

Ciò di cui abbiamo bisogno sono nuove domande. Non cerchiamo risposte.

© Punto di Svista 10/2008