Immagini contemporanee. La memoria e l’esperienza del dolore. Conversazione sulla fotografia tra Francesca Loprieno e Giovanna Gammarota. 2a parte
L’immaginazione è sempre stata il punto di partenza del mio lavoro di ricerca. Spesso, molto spesso le mie fotografie nascono dopo che le ho immaginate e direi anche desiderate (il desiderio di ricercare in quell’immagine la mia visione delle cose). Funziona così: si crea nella mia mente un’immagine che è il risultato di continui vagabondaggi in luoghi, persone, anime ed esperienze, poi cerco di mettere in scena le cose. A volte però è il luogo stesso a giocarmi brutti scherzi… succede che mentre giro alla ricerca di qualcosa, questo stesso qualcosa diventa un’immagine, un posto che posso animare, che posso far vivere… un po’ come manipolare la realtà, no?
È una cosa che facevo anche da piccola. Ho sempre cercato angoli che potessero farmi vedere le cose da un punto di vista differente, ricordo che a casa dei miei genitori spesso mi nascondevo dietro una pianta e mi divertivo a vedere oltre, facendo giochi di messa a fuoco tra le foglie e l’ambiente circostante, a volte erano le foglie ad essere sfocate, a volte era la figura di mia madre che gironzolava per la casa. L’immaginazione è l’espediente quotidiano di cui mi piace alimentarmi, come se fosse una stanza, una stanza tutta per me.
Ed è esattamente quello che è successo quando ho visto per la prima volta il tuo libro A piccoli passi – un treno per Auschwitz. Ho cominciato ad immaginare. Sono partita nell’osservare subito le foto mentre intorno a me il vocio della gente si faceva sempre più forte, sempre più fastidioso, sempre più invadente (ero in aereo). Ho letto le immagini così come mi si presentavano nel libro. Fotografie in bianco e nero di gente in viaggio in treno, molto probabilmente verso un luogo che ancora non avevo ben compreso, ma immaginavo. Subito dopo ho trovato delle sequenze di immagini tutte a colori. Ne restai colpita e mi chiesi, così senza troppi preamboli: come mai l’utilizzo del colore? Non mi soffermai più di tanto a pensare…
Continuai la lettura (solo delle immagini). A colpirmi fu l’immagine di pagina 33 “La campagna morava vista dal treno durante il viaggio di andata”. È da lì che ricevetti la prima lieve scossa di emozione. C’era qualcosa che da subito mi mise in relazione con le immagini da me prodotte nel progetto Passaggi nel nulla anche se mi resi conto che le motivazioni di partenza che mi portavano a vedere delle similitudini in questi progetti, erano ben diverse. Mi chiesi: è possibile poter parlare di cose differenti utilizzando uno sguardo simile? Pagina 35: Bosco di betulle ai margini della strada ferrata il paesaggio fotografato era suggestivo, vedevo gli alberi come piccoli filamenti luminosi (illuminati dal sole) che si innalzavano verso l’alto portando il mio sguardo non più in direzione del viaggio che sembrava proseguire invece verso la direzione Est…
A piccoli passi è un lavoro delicato, ma nello stesso tempo complesso, leggero, e pur greve. Un insolito viaggio, un diario intimo e personale su una tragedia collettiva. Le immagini citate sono solo alcune di quelle che mi hanno più colpito. Il racconto (se di ciò si può parlare) è quello di una tragedia, eppure nella tua ricerca, nulla è scontato, nulla è comune, non ci sono visioni di immagini di riferimento ad un immaginario collettivo. Non una goccia di sangue tipica di un assurdo e sfrenato fotogiornalismo contemporaneo, non una presenza umana sofferente (alcune ci sono, ma di passaggio, pura casualità, quindi) non una traccia di oggetti rotti, non un rumore, non un dolore, non un affetto, solo un passaggio capace di racchiudere l’unicità di tutto ciò che è stato e di aprire le porte ad altri possibili mondi e modi di rappresentazione.
Capisco allora che solo “a piccoli passi” è possibile vivere l’esperienza profonda di ogni cosa. Considero, quindi, il tuo lavoro su Auschwitz un esempio lucido e concreto di come dovrebbe essere vissuta la vita in generale, vivendo in pieno l’esperienza e trasformandosi con essa.
Partendo da questo lavoro ho poi visionato tutti gli altri. Ti chiedo: a differenza dei miei progetti i quali, anche a tuo parere, tendono a rappresentare spesso e volentieri il nulla durante il processo di esistenza, a me sembra invece che tu attraverso lo stesso nulla cerchi costantemente di ritrovare o riproporre frammenti di storia, una storia che non esiste più e che può essere rappresentata solo attraverso delle testimonianze (nell’immaginario comune) più concrete. Le tue immagini invece sono prive di ogni riferimento che conduca all’esperienza del dolore (almeno apparentemente) e tendono a riproporlo in maniera lucida e rispettosa per certi versi anche in modo molto delicato direi, quasi materno, come se ci fosse un senso di protezione nei confronti di esso… Il tuo lavoro è “memoria” e invita lo spettatore a non scontrarsi contro l’ovvio ma ad immaginare una storia alternativa alla storia stessa. La domanda è: tu come vivi questa esperienza?
© Punto di Svista 04/2014