Modalità di raffigurazione della guerra. Atti Giornate di Studio. Parte I. 1a edizione. A cura di Punto di Svista

4 Luglio 2011

Modalità di raffigurazione della guerra. Atti Giornate di Studio. Parte I. 1a edizione. A cura di Punto di Svista

Pubblichiamo la trascrizione del seminario tenutosi nell’ambito del primo appuntamento della Giornate di Studio sull’Immagine Documentaria di Roma, a cura di Punto di Svista e Officine Fotografiche (18 – 20 maggio 2011). Si tratta del seminario, tenuto da Maurizio G. De Bonis, sulla autorappresentazione dei fotografi e cineasti israeliani all’interno del conflitto con il mondo arabo-palestinese.

La redazione ha scelto di mantenere nella trascrizione il tono diretto, non accademico e colloquiale utilizzato durante il seminario. Potranno essere riscontrate nel testo ripetizioni di termini e frasi complesse tipiche della lingua parlata. Si è scelto di pubblicare questo tipo di testo per restituire al lettore non solo la sostanza del seminario ma anche, appunto il suo tono originale.

Per esigenze comunicative, la trascrizione del seminario, durata tre ore, è pubblicata in tre parti.

 

 

E’ POSSIBILE RACCONTARE UN CONFLITTO?
MODALITA’ CONTRADDITTORIE DELLA RAFFIGURAZIONE DELLA GUERRA
Seminario tenuto da Maurizio G. De Bonis (critico cinematografico e fotografico, presidente di Punto di Svista)

PRIMA PARTE


Emilio D’Itri (direttore artistico di Officine Fotografiche)

Grazie a tutti per essere venuti. Iniziamo questo Convegno di tre giorni organizzato da Punto di Svista, in collaborazione con Officine Fotografiche, nel quale cercheremo di fare il punto per quanto riguarda il fotogiornalismo e in particolare l’uso che si fa oggi delle immagini che trattano eventi drammatici. Il percorso di tre giorni vedrà diversi interventi.  Durante le giornate parteciperanno sia critici, fotografi, studiosi e docenti. Questo per dare il quadro più ampio possibile riguardo le tematiche che cercheremo di affrontare.

Stasera inizieremo con Maurizio De Bonis. Maurizio, oltre ad essere un amico, è un critico e giornalista con il quale organizziamo diversi eventi che riguardano gli aspetti critici, e non, legati alla fotografia.

Iniziamo ufficialmente il Convegno con Maurizio De Bonis

Maurizio G. De Bonis

Ovviamente bisogna partire dai ringraziamenti, che faremo anche alla fine. Inutile dire che Emilio D’Itri e lo Staff di Officine Fotografiche, con cui abbiamo organizzato queste giornate di Studio, ci hanno dato tutto il supporto possibile per poter realizzare al meglio questa iniziativa. Ringrazio tutto lo staff di Punto di Svista che nelle varie giornate parteciperà attivamente a questa iniziativa.

Ci tengo a sottolineare il titolo che abbiamo voluto dare in accordo anche con Officine Fotografiche. Appunto: “Giornate di Studio”. Perché è importante? Perché specialmente nell’ambiente fotografico, particolarmente attratto dal glamour delle inaugurazioni e delle iniziative pubbliche legate all’opera concreta dei fotografi, spesso si entra in circuito fine a se stesso che fa perdere di vista la fotografia. Esattamente come le altre discipline delle arti visive – il cinema in primo luogo – la fotografia è un territorio complesso che possiede al suo interno una serie di elementi che vanno sviscerati e vanno compresi proprio perché viviamo in una dimensione contemporanea della comunicazione in cui l’immagine (utilizziamo questa parola assolutamente generica) è diventata un elemento di un gigantesco calderone di cui spesso non riusciamo a capire esattamente le coordinate.

Allora è possibile raccontare un conflitto? Quali sono le modalità contraddittorie della raffigurazione della guerra?
I massmedia degli ultimi anni sono stati inondati da immagini relative ai conflitti bellici che si sono succeduti nel corso del tempo; non solo i massmedia televisivi che negli anni hanno utilizzato l’organizzazione del racconto della realtà attraverso un’impostazione non proprio cristallina. Dobbiamo parlare anche del sistema dell’informazione cartacea e certamente in tutto questo calderone anche internet e la diffusione di immagini tramite il web hanno giocato un ruolo fondamentale.
I conflitti sono entrati e usciti dal nostro sguardo in continuazione come se si trovassero in una sorta di frullatore gigantesco pieno di impulsi di carattere ideologico-politico. Questo è il primo punto che io vorrei fermare con voi. Se c’è un modo di non capire l’importanza del fotogiornalismo e della fotografia documentaria è quello di partire da un presupposto ideologico. Nel momento in cui si costruisce un discorso ideologico l’immagine diviene il prodotto di questo discorso ideologico. Dunque, noi oggi eviteremo, per quanto possibile (però poi ci ricadremo, perché lo so che andrà a finire così), di impostare il discorso su due questioni: la funzione politica del fotogiornalismo e la questione dell’etica dell’immagine, che è centrale, ma che ci porterebbe in un discorso ancora più complesso.
In questi giorni abbiamo visto i massmedia cartacei e televisivi riempiti di immagini di un evento epocale, che è quello che ha catturato la nostra attenzione negli ultimi giorni: l’uccisione di Bin Laden, il capo di Al Qaeda. Ebbene, proprio questo evento comunicativo è entrato in maniera prepotente all’interno di questo frullatore, edificando un discorso senza alcuna sostanza. Cosa intendo dire? Uno dei grandissimi equivoci del fotogiornalismo è che vedere qualcosa equivalga a sapere qualcosa. Se noi comprendiamo che questa formula è il territorio perfetto all’interno del quale i potentati editoriali riescono a indirizzare anche il senso critico delle persone, non riusciremo a comprendere invece il valore di una disciplina come il fotogiornalismo, la quale ha una sua funzione precisa.

Altra questione, di metodo. Esiste un modo preciso per non capire niente di “un qualcosa” ed è andare a esaminare questo “qualcosa” grazie a un meccanismo che possiamo definire “del microscopio”, cioè concentrandosi su un solo elemento escludendo il tutto che gli è intorno. Bisogna invece allontanarsi, allontanare il proprio sguardo, allargare la percezione, e comprendere che il fotogiornalismo e la fotografia documentaria non sono delle discipline distaccate da quello che è il sistema della comunicazione audiovisiva odierna, basata anche su tutta una serie di elementi che ruotano intorno all’immagine e che comunicano attraverso le immagini.

Il nostro primo riferimento sarà certamente il cinema, perché il cinema ha un rapporto strettissimo con una certa tipologia dell’immagine legata alla fotografia documentaria e al fotogiornalismo. Le due discipline, cinema e fotografia, e ribadisco fotogiornalismo, spesso si nutrono a vicenda. Basta andare in una qualsiasi biennale d’arte contemporanea nel mondo per capire come temi politico-sociali, come la rappresentazione della guerra, siano entrati a tutti gli effetti in una maniera prepotente nel sistema della videoarte, che sembra essere un territorio lontanissimo dal fotogiornalismo. Dunque, che cosa intendo dire? Intendo dire che dovremo necessariamente affrontare un ampio percorso che ruoti intorno al fotogiornalismo e che ci dia gli elementi interpretativi in grado di comprendere che cosa un’immagine pubblicata su un giornale, o fatta vedere in tv o che appare su internet, ci può comunicare.

La questione della guerra poi è alquanto complessa. Ed è proprio per questo motivo che abbiamo voluto aprire questa manifestazione con tale argomento. Andare lì, al cuore del problema. E qual è il cuore del problema? Da una parte l’interpretazione dell’immagine a sfondo ideologico-politico. Dall’altra, ed è il rovescio della medaglia del problema, la attenzione spasmodica nei confronti delle figure professionali che producono fotogiornalismo. Non perché non siano importanti; sono fondamentali quei fotografi che scelgono di entrare in rapporto con i conflitti. Ma perché il sistema stesso della fotografia e il sistema stesso dell’editoria hanno concentrato l’attenzione, non sul prodotto dell’autore (perché per me i fotogiornalisti sono autori) ma su altro; sono tutti dentro un circuito che dal punto di vista editoriale è basato sull’emersione di un narcisismo professionale che è controproducente proprio per la categoria dei fotogiornalisti e per il fotogiornalismo stesso. Allora, uno dei motivi per cui nella terza giornata ci sarà una conversazione tra due fotogiornalisti, tra l’altro moderata proprio da un (terzo) fotogiornalista, sarà per cercare un po’ di verità, per sgombrare il campo da tutta quella chincaglieria che spesso si accompagna al lavoro del fotogiornalista.

La guerra è un elemento con cui conviviamo dal punto di vista mediatico ormai da decine di anni. Certamente, quello che succede adesso con internet ha allargato a dismisura la divulgazione delle immagini. Ma come ci dobbiamo orientare? Come possiamo riuscire a comprendere cosa significa raccontare un conflitto bellico attraverso l’uso dell’immagine fotografica? E’ qualcosa di estremamente complesso. Perché? Perché l’idea del conflitto bellico in sé è complessa. Noi, infatti, gettiamo il nostro sguardo su un conflitto da un solo punto di vista e dunque non saremo in grado di capire nulla, perché vedere non significa sapere. Fruire un’immagine di un evento bellico, fruire un’immagine che fa emergere dal nulla dell’anonimato una tragedia, non vuol dire conoscere il senso di quella tragedia, non vuol dire avere quegli strumenti per interpretare in una maniera realistica il senso di quella tragedia. Ed è questo l’inganno che il mondo dell’editoria, e un certo sistema del fotogiornalismo, esercita nei riguardi del fruitore. Gli organi di informazione sembrano dire: “L’immagine che io propongo e la verità corrispondono, entrano l’una nell’altra?. Non è vero. Non mi stancherò mai di dirlo. Basta essere solo vagamente curiosi per comprendere come questo meccanismo della sovrapposizione dell’immagine “una” alla verità “una” non sia proponibile.

Qual è allora lo strumento che noi utilizzeremo in questo nostro percorso odierno per cercare di attivare il meccanismo della curiosità? Per cercare di attivare il meccanismo della consapevolezza della diversità dei punti di vista e della diversità delle varie verità? Non rimanere concentrati esclusivamente sulla questione del fotogiornalismo. Cercheremo di innestare il fotogiornalismo nel territorio più ampio della fotografia e delle arti visive.

Avrei potuto affrontare questo discorso in maniera del tutto libera spaziando all’interno dei conflitti che attraversano il mondo. E vi assicuro che ci sono decine di conflitti bellici in questo momento nel mondo che non trovano alcuno spazio nella televisione e che non sono neanche considerati dalle agenzie e dai fotogiornalisti. Questo è un fatto gravissimo. L’attenzione mediatica eccessiva su un conflitto è già elemento di assenza di verità poiché produce un’amplificazione che non ha nulla a che vedere con la realtà. La proliferazione di immagini, di documenti audiovisivi su un determinato ambito produce mancanza di verità.  Perché un tipo di rappresentazione di un conflitto innestato in un sistema comunicativo darà la sua singola e parziale verità. Dunque, la verità non è qualcosa di oggettivo, la verità non è qualcosa di compiuto, ma è un intrecciarsi continuo di variazioni della verità. E su questo concetto noi proveremo oggi a lavorare. In particolare su una porzione di conflitto bellico (utilizzo questa formula proprio per farvi capire che in questo momento esiste un conlfitto bellico globale). Emergono da questo conflitto bellico globale una, due, tre casi al massimo e questi tre casi sono quelli che vengono strumentalizzati purtroppo dal punto di vista ideologico-politico. Perché lì dove le strategie geo-politiche non contano nulla, lì dove non ci sono risorse energetiche, lì dove non ci sono interessi strategici, non c’è la presenza degli organi di informazione.

Preparando il mio primo intervento per queste giornate di studio mi sono molto concentrato su quei casi di conflitti bellici che potevano essere al centro del nostro percorso di studio e che potevano essere analizzati in una maniera da attivare quel meccanismo delle variazioni delle realtà che si intrecciano uno nell’altra.
Non ci sono molti casi in questo periodo. Certamente c’è la questione dell’Afghanistan, su cui tutti noi da anni veniamo martellati; c’è stata la guerra in Iraq; adesso c’è la questione della Libia che a noi italiani interessa perché si tratta dei nostri vicini di casa (dotati di molto petrolio). Ma tutti questi conflitti proprio perché sono nel loro svolgersi da poco tempo (se vogliamo, rispetto ad altri) non mi permettevano di realizzare un discorso compiuto nei termini che vi ho detto. Dunque, la scelta è ricaduta su quella che potrei definire il conflitto dei conflitti. Sto parlando del conflitto tra Israele e il mondo arabo che da più di 60 anni ha la sua collocazione all’interno dei massmedia in maniera continua, attraverso un bombardamento di immagini (più o meno a secondo dei periodo, quando succede qualcosa, di più, quando ovviamente non succedono cose eclatanti, di meno) ma questo conflitto rappresenta almeno per una certa generazione come la mia come qualcosa che ci ha accompagnati fin dall’infanzia. Io ricordo già quando ero ragazzino negli anni ‘60 le corrispondenze del telegionale dalle alture del Golan. E poi leggiamo oggi che qualche giorno fa sul Golan ci sono stati degli scontri molto violenti al confine tra Israele e la Siria. Come vedete questo conflitto rimane integro dal punto di vista comunicativo nell’arco di tutti questi decenni. E’ quasi una sorta di emblema di cosa significa raffigurare un conflitto bellico all’interno degli organi di informazione. Noi cercheremo, attraverso la presa di coscienza dell’esistenza di molti punti di vista (e per molti punti di vista non intendo punti di vista di carattere politico-ideologico) di comprendere come si può raccontare una guerra.

Intendo fare questo discorso non solo nell’ambito del fotogiornalismo, anche se vedremo molte immagini di fotogiornalismo. Intendo ampliare il discorso anche al sistema dell’arte contemporanea, della fotografia nell’arte contemporanea, del cinema. Perché questo conflitto che vive in noi da decenni ha trovato una sua collocazione in tutte queste discipline. E il fotogioranlismo rappresenta una sorta di vertice in cui tutte queste immagini trovano una loro sintesi.
Immagini del conflitto arabo-israeliano sui giornali, su internet, diffuse attraverso telefonini, posizionate dentro i servizi dei telegiornali, dentro i film. Questo è un meccanismo di comunicazione che trova la sua messa a fuoco anche grazie al fotogiornalismo. E così vedremo sequenze di film che hanno una relazione con immagini fotogiornalistiche.

E’ un caso unico al mondo, nei termini che sto per dirvi. Perché analizzeremo il conlitto arabo-israeliano attraverso il fotogioranlismo e le arti visive concentrandoci sulla produzione di immagini realizzate da fotogiornalisti, fotografi, cineasti israeliani. Perché abbiamo fatto questa scelta? Per un motivo molto semplice. Nel caso dei conflitti bellici non si era mai verificato un fenomeno come quello che affronteremo. Cioè, nessun paese come Israele ha mai riflettuto (nel modo in cui riflette Israele) sulla propria condizione di paese in guerra. L’unico caso che noi possiamo portare ad esempio a livello di riflessione teorica, è stata la guerra del Vietnam, che per un determinato numero di anni ha invaso il cinema americano. Ecco, dunque, la produzione di capolavori della cinematografia americana; e potrei farvi molti titoli, ma possiamo citarne un paio: Apocalypse Now di Francis Ford Coppola o Il Cacciatore di Michael Cimino. Due capolavori che ci parlano di un conflitto ma che in realtà alludono anche a qualcos’altro, alludono a un sistema di vita, a un meccanismo di riflessione all’interno di una popolazione. Si tratta di opere complesse che hanno restituito in termini di cultura visiva e di cultura pura e semplice al mondo molto più delle immagini fotogiornalistiche che coglievano la morte di un bambino.

Dunque, l’America e il Vietnam. Un caso gigantesco. Ma ancor più gigantesco è il caso di Israele, questo paese piccolissimo di 7 milioni di abitanti, che da 60 anni è dentro un conflitto. È allo stesso tempo artefice e vittima del conflitto. In maniera ossessiva attraverso i suoi artisti, attraverso i suoi cineasti e attraverso i suoi fotogiornalisti, Israele lavora sulla propria condizione, sulla propria esistenza. Ma non solo sulla propria condizione e sulla propria esistenza, anche sulla condizione e l’esistenza dei popoli con cui è in guerra. Ripeto, non parliamo di politica, non parliamo di ideologia, non parliamo delle azioni dei governi. Parliamo degli artisti che esprimono il sentimento di un popolo. Tutto questo discorso può anche essere rintraciato non solo nelle arti visive ma nella letterattura. Basta analizzare il numero degli scrittori emersi negli ultimi 20 anni a livello internazionale per capire come la letteratura israeliana abbia svolto un ruolo fondamentale… vedi Abraham B. Yehoshua, Amos Oz, David Grossman. Nella letteratura, questa forza di autocritica e di autoanalisi è emersa in maniera potente perché la letteratura è ancora vista a livello internazionale come la grande regina delle arti, la vera arte, quella più alta. Ma noi ben sappiamo, andando ad analizzare fotografia, videoarte, arte contemporanea e cinema quanto queste discipline siano state territori di autoanalisi, di autocritica, all’interno della produzione artistica di Israele. E perché i cineasti e i fotografi israeliani hanno così riflettuto su questo argomento? Per un motivo semplicissimo. Perché proprio nei momenti, nei passaggi di grande crisi, un paese produce più cultura. E perché si investe/sia fa cultura, in momenti di crisi? Perché quello è l’unico modo che può consentire la sopravvivenza dal punto di vista psicologico di un paese in conflitto. Si produce cultura lì dove l’angoscia determina una sorta di attaccamento alla sopravvivenza che non fa che stimolare l’analisi delle proprie responsabilità e l’analisi del contesto in cui queste responsabilità si sono concretizzate.

Partiamo dalla nostra analisi dal cinema. Il cinema come non mai in Israele ha riflettuto sul problema della guerra, sulla questione della propria collocazione in questo conflitto bellico che non finisce mai. Negli ultimi anni si è verificata una sorta di esplosione della cinematografia israeliana legata a questi temi. Nel 2009 arriva al Festival di Venezia un film di un autore totalmente sconosciuto. Un’opera prima arrivata nel meccanismo festivaliero come un film abbandonato, ultimo tra gli ultimi. L’intuizione del direttore artistico Marco Mueller è stata quella di prendere questo film, di non collocarlo in una sezione collaterale ma di inserirlo nel concorso ufficiale. Il film è Lebanon di Samuel Maoz, un piccolo capolavoro, che emerge con una forza incredibile e vince il Leone d’oro. Ecco, questo film è l’emblema di che cosa significa per una pasese riflettere su se stesso, riflettere sulle proprie azioni, riflettere sulle proprie condizioni, e riflettere in maniera psicanalitica sulla natura delle proprie azioni e sui risultati concreti delle proprie azioni. Quell’anno un altro film di grande importanza aveva avuto un successo enorme al Festival di Cannes, ed è un film tra l’altro linguisticamente significativo per quel che riguarda il rapporto tra i segni della realtà e immagine. È un lavoro di Ari Folman che si chiama Valzer con Bashir e che ci ha dato nel corso degli anni la possibilità di riflettere sull’essenza dei conflitti in una maniera profonda attraverso l’uso delle immagini.

Voglio partire proprio da una sequenza di Valzer con Bashir. Che è uno dei film che dal punto di vista linguistico è stato più studiato da innumerevoli versanti. Adesso noi vedremo la sequenza di apertura. Cerchiamo di concentrarci sull’uso delle immagini e anche sul senso profondo del dialogo e utilizzeremo questa sequenza come punto di partenza nel nostro percorso fotografico.

 

Ci fermiamo qui. Cercando di capire le motivazioni per cui ho voluto farvi vedere questa sequenza prima di partire con il nostro percorso fotografico. Ari Folman ci dà alcune indicazioni fondamentali. In primo luogo, noteremo che diversi artisti, fotografi, cineasti che in Israele si sono occupati della questione del conflitto bellico, della guerra, hanno fatto la guerra. Cioè hanno vissuto sulla propria pelle, sulla  propria condizione psicologica, l’essere in guerra, la paura della morte, l’orrore di portare la morte. Questo è un elemento fondamentale perché sgombra il campo da tutta questa chincaglieria narcisistico-colonialista che spesso è al centro delle attività di fotografi e cineasti che non sanno nulla di un paese, che non sanno nulla della guerra, ma che pontificano su quei paesi e sulla guerra. Questo pone gli artisti, i fotografi e i cineasti israeliani in una condizione di consapevolezza. Sanno cosa può significare raccontare questa esperienza. E Ari Folman è stato un soldato; è stato un soldato proprio in quella situazione narrata nel film: il massacro di Sabra e  Shatila, una delle situazioni più terribili che si sia mai verificata nella storia del secondo Novecento.

Faccio un’ultima considerazione. Avete visto che si tratta di un film d’animazione. Ari Folman non è in genere un’artista che lavora solo con l’animazione. Ha sentito però il bisogno di compiere questa operazione estetico-linguistica per tirarsi un po’ fuori e avere la possibilità di guardare con più precisione quello che era il suo percorso psicoanalitico in relazione al dolore della guerra e della morte. Dunque, ha prima realizzato delle sequenze girate in maniera classica, con persone in carne e ossa. Tutti i personaggi che si vedono in Valzer con Bashir sono persone realmente esistenti, che hanno vissuto quella esperienza. Poi però ha sentito il bisogno di compiere questo distacco e dunque sull’immagine della persona in carne e ossa ha sovrapposto l’elemento linguistico/formale del disegno. Una forma di distacco per mettere a fuoco quello di cui stava parlando.

Altro elemento che viene fuori da questa sequenza di Valzer con Bashir è la questione dell’angoscia. Quello che noi vediamo sugli organi di informazione attraverso le immagini e attraverso i filmati (utilizziamo questa formula generica) dei conflitti bellici non è l’angoscia ma è la spettacolarizzazione dell’atto bellico, la rappresentazione del dolore e della morte, inseriti in un contesto comunicativo-ideologico. Qui invece si cerca di ragionare sul tema dell’angoscia e su come questa angoscia abbia distrutto la vita delle persone. Nel caso specifico, Ari Folman ricostruisce un incontro che veramente ha avuto con questo suo amico il quale faceva un sogno ricorrente legato a dei cani che la notte corrono lungo le strade di Tel Aviv e vanno sotto casa sua per ricordargli quello che lui ha fatto. È un passaggio tragico. Il film inizia proprio con una presa di coscienza e poi si evolverà concentrandosi sulla condizione di un soggetto, di un essere umano, all’interno di un conflitto.

Dobbiamo pensare che in quella terra, in quella zona, già in tenera età, sia da parte araba (dei palestinesi) che da parte israeliana, giovani che ancora si devono formare sono costretti a convivere dentro questo meccanismo. Dunque, intere generazioni di due popoli, per non parlare poi di tutto quello che significa il conflitto israelo-arabo con gli altri Stati, sono costretti a vivere dentro l’angoscia dello scontro permamente. Questo è il dramma di cui gli organi di informazione e anche la fotografia e il cinema si dovrebbero occupare, invece di spettacolarizzare il dolore ed usare il sangue versato per scopi politici.

© Punto di Svista 07/2011

 

IMMAGINI
1, 2 Frame del film Valzer con Bashir di Ari Folman

INFORMAZIONI
Atti delle Giornate di Studio sull’Immagine Documentaria / A cura di Punto di Svista e Officine Fotografiche
Dal 18 al 20 maggio 2011
E’ possibile raccontare un conflitto? Modalità contraddittorie della raffigurazione della guerra / seminario tenuto da Maurizio G. De Bonis (Punto di Svista) mercoledì 18 maggio, dalle 18.00 alle 21.00

LINK – ATTI DELLE GIORNATE DI STUDIO SULL’IMMAGINE DOCUMENTARIA

 

 

One Comment
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    Michele Smargiassi

    Caro De Bonis, sono molto d'accordo con le sue due premesse di metodo. La fotografia di guerra (come tutta la fotografia cosiddetta documentaria) mostra ma non dimostra il proprio oggetto, e farlo credere significa occultare con l'apparenza la sostanza. I fotoreporter sono autori, e per non cadere nella lettura ingenua del loro lavoro come pura testimonianza meccanica è giusto scavare nell'imamginario visuale in cui sono (siamo) immersi, a partire dal cinema che dell'imamginario delle nostreultime generazioni è uno strutturatore potentissimo. Attendo la seconda parte, contando che risponda alla domanda implicita nella prima: che uso possiamo comunque fare delle fotografie della guerra? Cordialmente, m.s.

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